4 novembre 2013
L’Italia è un paese unico, e non solo per la sua forma geografica (“lo stivale”): lo dicono soprattutto la sua bellezza naturale, la sua storia straordinaria, le sue tradizioni apprezzate ovunque. Per questo, l’Italia è solitamente definita “il Bel Paese”. Da un punto di vista religioso, però, il giudizio sulla questione della specificità italiana cambia in modo drastico: mentre per alcuni l’Italia è il Paese della cuccagna, per altri è un Paese ingiusto, che non riconosce la parità di tutte le forme religiose.
Bisogna chiedersi che cosa significhi “Paese della cuccagna”. È il nome di un luogo immaginario in cui tutto è abbondanza, vita facile e godereccia. Sinonimi ne sono “Paese della pacchia”, “Paese di bengodi”. Nelle sagre paesane l’albero della cuccagna è un palo liscio e insaponato recante in cima, appesi a un cerchio, premi vari (perlopiù generi alimentari: “cuccagna” proviene da una voce germanica indicante dolciumi) che sono appannaggio di chi riesce a raggiungerli arrampicandosi.
Per il cattolicesimo, l’Italia è il Paese della cuccagna. Una data può assurgere a simbolo di questo fatto: l’11 febbraio 1929, in cui giunsero a piena maturazione legale le secolari pretese del cattolicesimo romano sul Paese, grazie ai Patti Lateranensi tra la Santa Sede e lo Stato italiano. Essi posero fine alla “questione romana” apertasi il 20 settembre del 1870 (occupazione di Roma da parte del giovanissimo Regno d’Italia). I Patti Lateranensi constano di tre atti distinti: un trattato, un concordato e una convenzione finanziaria. Non è nostro scopo entrare qui nei particolari. Ci basterà ricordare che, quale conseguenza primaria dei Patti Lateranensi, l’Italia ribadì ufficialmente il carattere cattolico dello Stato. La Chiesa Cattolica ne ebbe ogni sorta di beneficio – in primo luogo l’obbligo dell’insegnamento cattolico nelle scuole. Sappiamo che i Patti Lateranensi furono il risultato di una lunga e laboriosa trattativa tra la Santa Sede e Mussolini, che ne ricavò un indubbio prestigio personale. Ma anche nella Costituzione repubblicana i Patti non potevano mancare (articolo 7). Il che la dice lunga sull’importanza del cattolicesimo nel nostro Paese, quale che sia il regime imperante.
In data 20 marzo 1985, sotto il governo Craxi, la Camera approvò definitivamente il nuovo Concordato, in virtù del quale il cattolicesimo non è più religione di Stato e l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo nelle scuole pubbliche italiane. Di fatto, però, non è cambiato niente. Il cattolicesimo rimane la religione dominante soprattutto grazie ad una legislazione compiacente. Dunque, l’unicità dell’Italia in materia di potere cattolico è chiara, anche perché solo in Italia, nella fattispecie a Roma, ha sede il papato.
Inscritta in questa cornice storica, la questione del crocifisso acquisisce un significato più chiaro. È inutile che di tanto in tanto, nel Paese di bengodi, vi sia qualche tentativo di ribellione (“rigurgito”) contro il potere cattolico: la situazione è quella che è, non cambia e, verosimilmente, non muterà in tempi brevi. Chi crede in Dio tramite Gesù, seguendo unicamente il N.T., deve mettersi il cuore in pace e vivere la propria vita nella fede del Figlio di Dio, l’unico Signore e capo della Chiesa. Questo è quel che davvero conta.
Ciò detto, è giusto che qualcuno protesti ancora contro l’affissione del crocifisso nelle scuole? Alla luce della libertà di coscienza in materia religiosa, che dovrebbe essere garantita a tutti sempre e comunque, è giusto, mentre, come abbiamo appena detto, alla luce della tradizione religiosa italiana è inutile. Spiace per i vari rigurgiti che di tanto in tanto si hanno nel Paese della cuccagna da parte di atei, Ebrei, protestanti, non cattolici, musulmani….
La questione del crocifisso è regolata da una legge del 1924, dunque addirittura antecedente i Patti. E quel che conta, sino a prova contraria, è la legge. Se il crocifisso deve legalmente stare, che stia. Se non deve legalmente stare, che non stia. Tuttavia, l’impressione è che, seppure legalmente non dovesse stare, si troverà un modo di farcelo stare. Sì, perché in questa diatriba recente si sono pericolosamente toccate le corde del sentimento, invocando concetti quali “simbolo dei valori” dell’Italia. La storia insegna quali pericoli si annidino nelle ideologie, specie in ambito religioso. Per chi crede, in realtà, le ideologie stesse hanno valore solo quando siano seguite da atti rispondenti alla Bibbia.
Il crocifisso, che i primi cristiani non conoscevano, sarebbe il “simbolo dei valori” religiosi (e non soltanto) dell’Italia, e quindi non va rimosso. A questo punto occorre chiedersi quali siano i valori tirati in ballo. Forse quelli delle bestemmie imperanti, della corruzione morale diffusa un po’ dovunque, dei divorzi in aumento, delle “coppie di fatto” eterosessuali e omosessuali, della più crassa ignoranza biblica, e via dicendo? Non si può affatto credere che il crocifisso rappresenti questi valori. Il cristianesimo è tutt’altro affare: è fede in Cristo e ubbidienza al Padre; è speranza, è carità, è comportamento etico irreprensibile, è un conformarsi alla figura del Cristo, che tutto ha detto e tutto dimostrato nella sua breve vita, lasciando un esempio imperituro.
Abbiamo detto sopra che nel Paese di bengodi, ovviamente in tempi e modi diversi, i rigurgiti circa il crocifisso sono ricorrenti. Sorprende notare come negli schieramenti a favore del crocifisso non manchi mai il medesimo appiattimento mentale e la medesima ignoranza storico-religiosa. Addirittura, anche presso eminenti personalità della cultura italiana sembra che non si voglia andare in fondo (per non aizzare il cane che dorme?). Vediamo un esempio significativo in proposito: Natalia Ginzburg (1916-1991), in un articolo pubblicato su “L’Unità”del 25 marzo 1988, difese il crocifisso che una professoressa di Cuneo aveva tolto dall’aula della sua classe, chiedendone nello stesso tempo la rimozione da tutte le aule scolastiche italiane. La richiesta aveva sollevato, di conseguenza e al solito, un gran polverone (subito sopito).
Ma non appare strano che la Ginzburg, di solida tradizione ebraica (figlia di Giuseppe Levi, noto professore di anatomia all’Università di Torino, moglie di quel Leone Ginzburg che fu critico letterario e professore all’Università di Torino, tra i primi collaboratori della celebre casa editrice Einaudi, torturato e ucciso dai nazisti a Regina Coeli [Roma] nel 1944, madre di Carlo Ginzburg, insigne storico), prenda le difese del crocifisso? No, non è affatto strano, se l’ebraismo di Natalia Ginzburg è pari a quello di suo figlio Carlo: «Sono un ebreo nato e cresciuto in un paese cattolico; non ho mai avuto un’educazione religiosa; la mia identità ebraica è in gran parte il frutto della persecuzione» (C. Ginzburg, Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano 1998, p. 12). Insomma: Ebrei alla cattolica, che si ricordano di essere Ebrei solo quando sono perseguitati, così come i Cattolici si ricordano di essere tali quando è toccato il loro crocifisso.
Nell’articolo citato sopra – che lascia dispiaciuti per la genericità di talune affermazioni e per la totale mancanza di prospettiva biblica –, la signora Ginzburg afferma sorprendentemente: «A me dispiace che il crocifisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita … Il crocifisso non insegna nulla. Tace … Il crocifisso non genera alcuna discriminazione. È là muto e silenzioso. C’è stato sempre … Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsi offesi gli Ebrei? Cristo non era forse un Ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, com’è accaduto a milioni di Ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano». Gli Ebrei dovrebbero sentirsi offesi perché la Bibbia ebraica sostiene che farsi immagini è proibito: è scritto nei Dieci comandamenti (Es 20:4). È universalmente noto come la mancanza d’immagini costituisca uno dei principi più solidi e importanti dell’ebraismo. Viene il sospetto che alla signora Ginzburg o non interessasse niente della Bibbia o non la conoscesse. A differenza di ciò che la signora Ginzburg sostiene, il crocifisso non è per nulla muto: invece parla, eccome! Non parlerebbe se non ci fosse, e non ci sarebbe se qualcuno non ce lo avesse messo.
Bisogna ora chiedersi: perché il caso recente ha creato tanto scalpore? Perché a promuoverlo è stato un cittadino italiano musulmano, Adel Smith, famoso per le maniere spicce che lo contraddistinguono, un tipo antipatico a pelle, tosto, rognoso, che non molla l’osso. Si teme che dopo la rimozione del crocifisso si vogliano imporre tradizioni musulmane. Si teme che questo accada in breve tempo, visto che noi Italiani non facciamo più figli e che altri li fanno al posto nostro: questi “altri”, che vivono secondo tradizioni e maniere diverse dalle “nostre”, un giorno prenderanno il sopravvento grazie al loro numero …
Personalmente non credo che tutto ciò avverrà così presto e così facilmente. Se Adel Smith non molla l’osso, tanto più il prete. Figuriamoci! Dopo aver durato millenni di fatica per acquisire il potere, il prete non mollerà l’osso manco morto. Così come non lo molleranno gli Ortodossi. Vi siete chiesti come mai il Papa del cattolicesimo, che ha girato in lungo e in largo il mondo, compiendo più di cento viaggi (se non erro), non possa andare a Mosca, la “terza Roma”? Perché le autorità della Chiesa Ortodossa, divisa dal 1054 da Roma, non lo vogliono, temendo il proselitismo cattolico, di cui in realtà si sono già lamentati da tempo. Né molleranno l’osso i musulmani laddove sono tradizionalmente collocati. Insomma: per ciò che riguarda la religione, uno statu quo mondiale? Credo di sì perché il guaio è stato fatto e, una volta fatto, è difficile ripararlo. Il guaio è che si è mischiato il fatto religioso, che è individuale, con il fatto politico, che è collettivo. E se è vero che il matrimonio tra Stato e religione si riscontra nella maggioranza delle culture storiche, è altrettanto vero che nel cristianesimo questo non sarebbe mai dovuto accadere: le parole di Gesù circa la distinzione tra Stato e religione non possono essere dimenticate (Mt 22:21).
Nella diatriba sul crocifisso, parecchi sono intervenuti, e tutti a difesa del crocifisso. Addirittura, Carlo Azeglio Ciampi ha citato il celebre scritto (1942) di Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, scritto che riemerge fuori sempre a tempo debito, come se fosse il Vangelo. Però, se l’ha detto Croce, sarà pur vero – dice la massa che di Croce oggi non sa più nulla: difatti, per moltissimi, oggi, Croce (1866-1952) appartiene a un contesto culturale, quello dei primi cinquant’anni del Novecento, oramai morto e sepolto.
Mi chiedo se questo scritto di Croce sia mai stato letto, se si sappia o no che Croce, in sostanza, non era credente, o che cosa egli volesse intendere per “cristiano” (che non è lo stesso di “cattolico”: Croce usa “cristianesimo”, “chiesa cristiana cattolica” e via dicendo); infine se si capisca o no che Croce non può essere preso a sostegno di una prassi che nel Vangelo non ricorre. Infatti, Croce non è il Vangelo (peraltro, Croce nel suo articolo non cita mai la Bibbia). Pur essendo stato uno studioso eccezionale, benemerito della cultura italiana, che contribuì a svecchiare e a elevare a livelli europei, come tutti anche Croce ha preso qualche grave abbaglio in vari ambiti. Basti qui ricordarne uno d’indole religiosa. Nel 1947, dopo l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale e il ben noto tentativo nazista di sterminio degli Ebrei (tentativo che costò milioni di vittime innocenti), Croce invitò proprio gli Ebrei, con i quali solidarizzò comunque, a «cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli» onde evitare persecuzioni (quasi che gli Ebrei non avessero il sacrosanto diritto a rimanere tali). Questa fondamentale mancanza di comprensione del problema ebraico da parte di Croce la dice lunga su come da noi certi problemi siano trattati.
In Perché non possiamo non dirci cristiani l’articolazione del pensiero di Croce – insolitamente farraginosa – sembra concentrarsi unicamente sul “cristianesimo” visto nella sua valenza storica. In futuro si potrebbe esaminare più attentamente, da un punto di vista biblico e storico, questo saggio, perché in esso compaiono da un lato cose interessanti (come spesso in Croce) e, dall’altro, cose che non stanno né in cielo né in terra da un punto di vista scritturale. In attesa di procedere in tal senso, piace ricordare qui una bella affermazione che vi compare: «Noi, nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo». Ed è proprio quello che nel “cristianesimo” di molti Italiani è spesso mancato e manca tuttora: morale e pensiero basati sul cristianesimo (per “cristianesimo” intendo qui quello prodotto dalla Parola di Dio). Il che, a ben guardare, non è poco.
Il titolo del saggio crociano (Perché non possiamo non dirci cristiani) a me piace tantissimo. Magari fosse così; disgraziatamente, però, così non è. Lo sarebbe se si leggesse, amasse e applicasse il Vangelo; se, in altre parole, si diventasse “discepoli di Cristo”, ossia cristiani (At 11:26). Purtroppo, ben sappiamo quale importanza (intellettuale e pratica) rivesta la Bibbia in Italia: nessuna. Dunque: come possiamo dirci cristiani senza avere conoscenza della Parola di Cristo, l’unica in grado di portarci alla fede (Rm 10:17)? “Battezzare” un bimbo non significa farne un cristiano: cristiani, piuttosto, si diventa grazie a un processo serio e delicato: dall’ascolto del Vangelo, attraverso il battesimo, si giunge alla perseveranza quotidiana nella fede del Signore Gesù. E ciò solo e sempre mediante la Parola di Dio.
Si sa che, tradizionalmente, noi Italiani non abbiamo mai avuto dimestichezza con la Bibbia: perciò, ci troviamo spesso in difficoltà a perseverare nella fede biblica senza il consueto supporto delle tradizioni umane, rappresentate dall’oculato controllo della Chiesa Cattolica. Insomma: dinanzi ai problemi della fede siamo come bambini sperduti. Da un lato, ci mancano una chiara coscienza critica in materia e il coraggio di prendere decisioni conseguenti; dall’altro, abbonda il desiderio che ci spinge a fare cose che non si devono, pensando che, tutto sommato, alla fine, qualcuno sistemerà i guai, ci perdonerà i peccati, avrà pietà … La morale è scesa a livelli bassissimi, nell’Italia che non ama la Bibbia. E nel Bel Paese non ci sono prospettive di miglioramento per la lettura della Bibbia; anzi, le cose si complicano: in base ad una recente statistica, il 39 per cento degli Italiani è vittima del cosiddetto “analfabetismo di ritorno” (a malapena sa leggere, scrivere e far di conto). La gente, avvezza ai mezzi di comunicazione di massa, ha perso il contatto con la cultura. Un’altra statistica dice che, in Europa, gli Italiani sono quelli che leggono di meno. E figuriamoci se gli Italiani leggono la Bibbia …
La nostra storia spiega perché questo accade. Massimo D’Azeglio (1797-1866), scrittore e uomo politico piemontese (peraltro genero di Manzoni), disse all’indomani dell’unità d’Italia: «Ora che l’Italia è fatta, bisogna fare gli Italiani». Al che, di rimando, altri pensarono: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri», e «tutto cambia perché non cambi nulla». La Chiesa Cattolica, senza fare cristiani, si è fatta piuttosto gli affari propri per far sì che, tutto sommato, in religione, nel Paese della cuccagna, pur cambiando all’apparenza molte cose, non cambiasse (e non cambi) mai davvero nulla. Ma ora è giunto il momento di fare, secondo il N.T., sia la Chiesa – quella vera – sia i cristiani, che recano il Crocifisso sempre impresso nei loro cuori e nelle loro menti.
Arrigo Corazza
LA CROCE E IL CROCIFISSO: RILIEVI STORICI E BIBLICI
La parola “croce” deriva dal sanscrito krugga (“bastone pastorale”); in greco è stauròs (“palo”) o xýlon (“legno”); in ebraico è ‘es (“albero”). Questa terminologia indica che, in origine, la croce era un albero / palo cui i condannati venivano confitti con chiodi o impalati.
Fin dalla preistoria, la croce fu simbolo diffuso per indicare la vita, la divinità, il sole … Il processo attraverso cui la croce giunse ad avere valore universale, soppiantando tutti gli altri simboli cattolici, si compì abbastanza tardi (IV secolo), dopo l’epoca costantiniana.
Pare che i Romani ereditassero la crocifissione dai Persiani, tramite i Greci e i Fenici. Non praticata su cittadini romani, fu abolita da Costantino (313-337). Le fonti antiche (soprattutto letterarie e archeologiche) parlano della croce specie a cominciare dal 325-335, in occasione della inventio crucis (“ritrovamento della croce”) avvenuta in Gerusalemme durante la dedicazione di due basiliche (Santo Sepolcro e Calvario). Prima d’allora la croce ha minima rilevanza presso i cristiani: è assente nei Padri Apostolici (vicinissimi al tempo degli Apostoli) e ha un ruolo secondario nei Padri Apologisti (subito dopo i Padri Apostolici). Da allora in poi, a circa tre secoli dalla morte del Cristo, si sviluppa il culto della croce, che diventa il segno della vittoria (signum victoriae), la croce invincibile (crux invicta). Si diffonde il segno della croce (signum crucis), usato prima d’ogni azione ed assurto a valore rituale di efficacia. Rarissime (e talora discusse) sono le raffigurazioni della croce prima del IV secolo, mentre le più antiche attestazioni della rappresentazione del crocifisso sono il graffito del Palatino (III secolo, di mano pagana), il Cristo nudo sulla croce (420 d.C.) e il pannello ligneo della porta della Chiesa di S. Sabina a Roma (450 d.C.).
I cristiani del N.T. non facevano uso né della croce né del crocifisso (AC).
RIQUADRO (G. B. Guerri, Gli Italiani sotto la Chiesa, Mondadori 1992)
«Ogni santo ha una specializzazione, spesso attribuitagli dalla Chiesa stessa, a volte dalla credenza popolare: c’è chi protegge i viaggiatori, chi i medici, chi gli animali, chi gli occhi, chi i marinai, chi gli innamorati, chi fa ritrovare gli oggetti perduti e chi fa passare il mal di testa. La casistica è sterminata, non c’è evento della vita che non possa essere messo sotto la protezione di un santo.
È una forma di paganesimo legalizzato, che ha il suo sbocco più clamoroso nella religione cattolico-magica dei brasiliani, ma anche parecchi italiani, spesso senza rendersene conto e senza dare importanza alla cosa, integrano il cattolicesimo con pratiche magiche: il corno e il santino convivono; la fede e la fiducia nell’astrologia e nella reincarnazione non sembrano contraddittorie; chi ha un crocifisso o un’immagine della madonna sopra la spalliera del letto si guarderà ugualmente dall’appoggiare sul letto un cappello, che porta morte; il gesto automatico di farsi il segno della croce prima di una prova difficile, o anche di tuffarsi in mare, ha perso il significato originario per diventare un gesto scaramantico … Gli italiani sono un popolo di cattolici pagani che, oggi, dà lavoro abbondante a 200.000 religiosi, a 150.000 maghi professionisti e a poche decine di santi: gli altri vengono ignorati in quanto scarsi produttori di grazie».