IL PECCATO DI GIONA
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Mosè è una figura gigantesca della storia ebraica. Per rendersene conto basta scorrere le pagine dell’A.T., che costituisce l’unica fonte degna di fede a cui attingere per delineare un quadro della sua vita. Nell’A.T. (specialmente in Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) il nome Mosè ricorre 773 volte; nel N.T. è il personaggio anticotestamentario maggiormente citato: 80 volte, contro le 73 relative ad Abramo (Davide ricorre 59 volte, Giacobbe 27, Isacco 20, ecc). A significare l’importanza di Mosè sta la testimonianza dei cosiddetti “Vangeli sinottici” a proposito della trasfigurazione di nostro Signore, che conversò con lui e con Elia (i due «apparsi in gloria, parlavano della sua dipartenza che stava per compiersi in Gerusalemme»: Mt 17:3; Mc 9:4; Lc 9:30).
Ovviamente, la fama di cui godette Mosè va ascritta all’opera legislativa che porta il suo nome. Eppure, quest’uomo immenso, venerato, che attese con estrema dedizione alla cura d’Israele per quarant’anni, non poté entrare nella terra promessa a causa del suo peccato contro il Signore.
VALORE DEGLI ESEMPI BIBLICI
L’episodio di Mosè è uno dei tanti tratti dall’A.T. che possono interessare assai al cristiano. Sia chiaro: l’Antico Patto non è più vincolante per il discepolo di Cristo e questa è un’acquisizione che risale al Signore stesso, a Paolo (sebbene i nostalgici della Legge mosaica non siano mai venuti meno, nella storia della Chiesa. Si ricordino gli avversari dell’apostolo Paolo, i cosiddetti “giudaizzanti”). Se non più vincolante, certo l’A.T. è assai importante e adatto a far riflettere, ad ammonire il cristiano che si trova negli ultimi giorni, ossia inserito nell’epoca messianica, nell’epoca dello Spirito Santo, nell’epoca di Cristo Gesù, nel tempo della Chiesa (1Cor 10:11-12; Rm 15:4; Eb 1:1).
MOSÈ E LE FONTI BIBLICHE
Come s’è detto sopra, la Bibbia è l’unica fonte su Mosé. Quanto all’A.T, il ciclo di Mosè è racchiuso tra Es 2 e Dt 34. Quanto al N .T., ricordiamo le seguenti preziose informazioni:
— in At 7, Stefano dà un abbozzo della storia d’Israele da Abramo fino a Salomone con larga concentrazione d’interesse nei riguardi di Mosè. In Gv 3:14 viene citato il serpente di bronzo, tipo di Cristo, eretto da Mosè nel deserto a salvezza degli Israeliti moribondi (Num 21:8-9);
— Paolo, in 1Cor 10:2, ricorda il passaggio del Mar Rosso e gli Ebrei battezzati «per essere di Mosè», a lui uniti, quali membra di un corpo, prefigurando il battesimo che incorpora al Signore;
— in 2Cor 3:7, l’apostolo parla dello splendore del volto di Mosè dopo la ricezione della Legge (Es 34:29-30);
— in 2Tm 3:8 emergono Iannè e Iambrè, i due maghi che, stando alla tradizione rabbinica, si opposero a Mosè di fronte al Faraone (cfr. Es 7:11);
— l’anonimo autore di Ebrei (11:23-29) riporta alcuni episodi relativi all’infanzia e alla maturità di Mosè quali esempi di fulgida fede;
— Gd 9 fa menzione di un episodio curioso e interessante, ma altresì assai complesso: la contesa tra l’arcangelo Michele e Satana relativamente al corpo di Mosè;
— in Ap 15:3 si allude al cantico di Mosé (Es 15:1; Dt 21:30ss.).
TAPPE DELLA VITA DI MOSÈ
Della vita di Mosè basterà qui ricordare solo alcune vicende fondamentali. Anzitutto, che morì in vetusta età, a 120 anni (Dt 34:7), pur essendo ancora vigoroso. In secondo luogo, che questi 120 anni possono essere divisi grosso modo in tre segmenti temporali di eguale durata (40 anni).
— Il primo periodo comprende la nascita da due Leviti, l’adozione da parte della figlia di Faraone e l’educazione a palazzo (At 4:22).
— Il secondo periodo inizia malissimo: Mosè uccide un Egiziano per difendere un Ebreo (At 7:24; Es 2:12). Per sfuggire all’ira del Faraone, egli trova rifugio in zone desertiche presso la popolazione dei Madianiti, con i quali trascorre i secondi quarant’anni pasturando gli armenti di suo suocero Jethro o Reuel, gran sacerdote di Madian (At 7:30; Es 2:15-3:1).
— Infine, ad ottant’anni, il Signore lo chiama liberare gli Israeliti schiavi in Egitto. E per l’appunto insieme con i suoi fratelli ebrei, Mosè trascorre le ultime, densissime quattro decadi della sua vita terrena, portando il popolo di Dio fino alle soglie della terra promessa.
LA TEMPRA DI MOSÈ
Tali, in sintesi, le tappe della vita del nostro personaggio. Il quale, a ben vedere, ebbe un gran daffare, assai più di quanto chiunque di noi possa minimamente supporre. Quest’uomo, il supremo comandante, il mediatore tra Dio e gli Ebrei, il profeta, il legislatore, convisse quaranta lunghi anni con oltre seicentomila Ebrei rissosi, che non avevano affatto compreso la portata dell’intervento del Signore nella loro storia.
Pensiamo solo per un attimo quali vastissimi problemi dovette fronteggiare Mosè. Certo, seppe amministrare saggiamente il deposito affidatogli: la grazia di Dio fu enorme e sempre presente. Ma anche Mosè dette il proprio contributo, che, alla resa dei conti, si rivela immenso. Se è vero, come è pienamente vero e come tutti i cristiani ritengono, che Dio governa la storia, è altresì da riconoscere ch’egli si è servito di uomini degni del suo nome, che hanno influito sulla storia stessa in modo lacerante e sconvolgente. Si pensi non solo a Mosè, ma anche a Davide, a Paolo di Tarso, uno dei personaggi più amati dai cristiani dopo il Signore Gesù. La Bibbia parla di questi inviati di Dio, che patirono, morirono per preparare l’avvento del Regno di Dio o per diffonderlo.
Mosè, Davide, Paolo, Pietro e Giovanni furono dotati delle qualità necessarie ad adempiere il compito loro affidato. Ebbero un carattere, una cultura, una collocazione nelle vicende umane, una collocazione storica, dunque. Mosè ebbe la buona o cattiva ventura – noi non sappiamo: Dio lo sa – di dialogare con un popolo ribelle fino all’estremo. Ma Mosè, a differenza di tanti credenti, fu assai paziente, fu mite.
Il libro dei Numeri, che avremo occasione di citare ancora, annuncia tale lodevole qualità sua: «Mosè era un uomo molto mansueto, più d’ogni altro uomo sulla faccia della terra» (12:3). E l’annuncia nel contesto di un fatto estremamente triste: la ribellione di suo fratello Aaronne e di sua sorella Miriam (Nm 12:1-16), che avevano diviso con lui gioie e tristezze recate da tanti anni di peregrinazione nell’eremo. Ancora, nell’episodio della ribellione di Core, Dathan e Abiram, spalleggiata da molti (circa duecentocinquanta uomini), Mosè rimise l’affronto nelle mani del Signore. I ribelli furono sterminati e pure sterminati furono i loro simpatizzanti, sicché ampi vuoti si crearono tra il popolo ribelle (Nm 16: il racconto è agghiacciante e lascia trapelare le condizioni difficilissime in cui Mosè dove sempre agire).
La tempra fisica e spirituale di Mosè era dunque robustissima. Ma anch’egli cedette, peccò, mancando di rendere gloria a quel Dio con il quale parlava, che gli comunicava direttamente le proprie deliberazioni. Il peccato commesso da Mosè fu pubblico, di fronte al popolo ribelle. Dispiacque al Signore e ciò basta, anche se non si trattò all’apparenza – secondo il nostro fallibile e umano giudizio – di peccato “grave”. Vedremo avanti i contorni e il nucleo centrale del fatto.
Non dobbiamo omettere, tuttavia, di ricordare che il Signore aveva perdonato in precedenza uno sfogo spaventoso di Mosè, aggravato dalle responsabilità affidategli da Dio. Dopo l’ennesimo mormorio del popolo (“mormorare” è termine tecnico per descrivere l’atteggiamento degli Ebrei, perennemente scontenti del Signore e della propria sorte), e dopo aver notato l’ira divina in proposito, Mosè affrontò Dio con queste parole: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia agli occhi tuoi, che tu m’abbia messo addosso il carico di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? o l’ho forse dato io alla luce, che tu mi dica: Portalo sul tuo seno, come il balio porta il bimbo lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Donde avrei io carne da dare a tutto questo popolo? Poiché piagnucola dietro a me, dicendo: Dacci da mangiare un po’ di carne! Io non posso, da me solo, portare tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. E se mi vuoi trattare così, uccidimi, ti prego; uccidimi, se ho trovato grazia agli occhi tuoi; e che io non veda la mia sventura» (cfr. Nm 11:11-15).
L’amara esplicitazione del profondo malessere spirituale di Mosè pervenne solo al Signore. Fu uno sfogo “privato”, sicché i ribelli israeliti nulla seppero. Il Signore chiuse un occhio, passò sopra il crollo mosaico (giacché di questo si trattò: un vero e proprio collo, nella fede e nella pazienza) e promise che il popolo avrebbe mangiato carne per un mese intero, sì da averne nausea, sì da rigettarla dalle narici. Il grande Mosè, coadiuvato dai settanta anziani, continuò a guidare Israele. Giunse a Meriba, dove peccò insieme con Aaronne suo fratello, compromettendo per sempre il suo ingresso nella terra promessa.
IL PECCATO DI MOSÈ: LE FONTI
Sia l’A.T. sia il N.T. sembrano aver steso un velo pietoso sulla trasgressione di Mosè: non se ne parla mai, mentre nell’A.T. ricorre qualche riferimento (che, ad esempio nel caso di Sal 106:32-33, si rivela molto utile). Queste sono dunque le fonti alle quali attingeremo: Nm 20; 27:14; Dt 1:37; 3:25-27; 32:48-52.
«Sali su questo monte di Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e guarda il paese di Canaan, che io do in possesso ai figli d’Israele. Tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai riunito al tuo popolo, come tuo fratello Aaronne è morto sul monte Or ed è stato riunito al suo popolo, perché mi siete stati infedeli in mezzo ai figli d’Israele, presso le acque di Meriba, a Cades, nel deserto di Sin, in quanto non mi avete santificato in mezzo ai figli d’Israele. Tu vedrai il paese davanti a te, ma là, nel paese che io do ai figli d’Israele, non entrerai» (Dt 32:48-52).
«Lo provocarono presso le acque di Meriba, e ne venne del male a Mosè per causa loro; perché inasprirono il suo spirito ed egli parlò senza riflettere» (Sal 106:32-33).
Gli Ebrei, arrivati a Kades (ove morì Miriam la sorella di Mosè), iniziarono a mormorare a causa della mancanza d’acqua. A questo punto leggiamo attentamente nella Bibbia cosa accadde (Nm 20:7ss).
CONSIDERAZIONI FINALI
Dalla lettura di Nm 20 apprendiamo che la Parola del Signore ebbe effetto immediato: Aaronne fu privato dell’ufficio sacerdotale a vantaggio del figlio Eleazar. Entrambi, dietro ordine di Dio, salirono sul monte Hor, nei pressi di Edom. Salirono in presenza del popolo: davanti al popolo «Mosè spogliò Aaronne dei suoi paramenti, e ne rivestì Eleazar, figlio di lui; e Aaronne morì là, sulla cima del monte» (Nm 20:28). Si verificò il passaggio di consegne dal padre al figlio. Certo, lo spettacolo dovette essere triste e vergognoso per Aaronne, sommo sacerdote, praticamente denudato della propria dignità al cospetto di tutti. L’impressione che si ricava, tanto per la morte di Aaronne quanto per quella di Mosè (il quale, all’età di 120 anni, era ancora gagliardo), è che entrambi i fratelli furono messi a riposo dal Signore.
Cerchiamo qualche attenuante per Mosè; in primo luogo, l’età; in secondo luogo, vedeva che la generazione uscita dall’Egitto, quasi del tutto scomparsa, era stata sostituita da una nuova tanto ribelle quanto la precedente, una nuova generazione che non aveva affatto compreso gl’interventi storici di Dio a pro d’Israele; in terzo luogo, fu spesso provocato.
Apparentemente, secondo il racconto di Nm 20, la colpa di Mosè fu quella di aver colpito (non una ma due volte) la roccia invece che parlarle. Ma la realtà delle cose è ben più sostanziosa: Mosè mancò di fiducia («Vi faremo noi uscire acqua da questo sasso»?), ossia non ebbe fede in Dio nella misura richiesta al suo ruolo di condottiero; Mosè non dette gloria al Signore di fronte al popolo: fatto imperdonabile, perché Israele aveva bisogno proprio dell’opposto, com’era accaduto sul monte Sinai, quando esso ebbe sentore della potenza di Dio e della sua gloria (Es 19); e doveva, inoltre, riconoscere nel condottiero che Dio gli aveva dato la sicurezza necessaria a vincere le durezze della vita e a santificarsi. La situazione poteva precipitare, tutto poteva dissolversi, dinnanzi a tale cattivo esempio. Ma Dio provvide l’acqua e la plebaglia fu allegra e forse non capì la gravità dell’atteggiamento di Mosè e di Aaronne.
I cristiani dovrebbero sempre far tesoro di questo monito divino: la mancanza di fiducia verso Dio, che ci ha donato la speranza della vita eterna mediante il sacrificio di Cristo Gesù e che è il datore di ogni sorta di bene, è l’inizio della fine, della discesa che conduce direttamente nel baratro. Se il cristiano odierno, che vive in una condizione assai più rosea di quella degli Ebrei nel deserto, non ripone piena fiducia nel Signore, a chi si rivolgerà? Quale scopo vedrà nella sua vita?
Inoltre, la mancata glorificazione di Dio e la mancata testimonianza del vangelo ai peccatori piacerà al Signore? Certamente no. Per di più, se lo disprezziamo evitando di glorificarlo e riconoscerlo dinnanzi ai peccatori da salvare, dove mai troveremo scampo (cfr. Mt 10:32-33)?
Come detto, Mosè peccò anche d’impazienza. Certo – noi diciamo – questo era inevitabile, specie dopo tanti anni e dopo tante provocazioni. La pazienza è una caratteristica di Dio: dobbiamo pertanto sforzarci di esercitarla, laddove il nostro carattere indichi diversamente («Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento»: 2Pt 3:9).
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Occorre prestare molta attenzione: chi perde la pazienza, di solito parla in modo poco saggio, è dedito all’ira, ha lo spirito aspro. Proprio come accadde a Mosè (cfr. Sal 106:32-33), il mansueto che non sapeva quel che diceva e definiva “ribelli” gli altri mentre si stava ribellando al Signore. I cristiani sono chiamati a pazientare, a sottrarsi all’ira duratura, a perseguire umiltà e mansuetudine, che sono il frutto della fede in Cristo, il mansueto per eccellenza (Mt 11:29). I cristiani sono chiamati altresì a non condannare il peccato altrui quando fanno lo stesso (Rm 2:17-24).
Da ultimo, siamo chiamati a ubbidire alla Parola di Dio, a non essere distratti al riguardo, come fu Mosè, il quale, dopo tanti anni, non avrebbe dovuto farsi cogliere nella disavvedutezza che mostrò con i suoi fratelli ebrei. Come il buon Mosè, anche noi avremmo dovuto imparare che i comandamenti di Dio esigono attenzione e obbedienza. Non dobbiamo riposare sugli allori pensando che il Signore ci punirà solo se avremo commesso tanti e gravi peccati: ne basta uno, fatto bene, per non entrare nel riposo eterno.
Arrigo Corazza