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LE FESTE CATTOLICHE COMANDATE

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LE FESTE CATTOLICHE COMANDATE

 

«La tradizione è una meravigliosa alleata di tutte quelle religioni in cui non si vuole pensare, studiare, acquisire, giudicare e decidere. Nella tradizione non bisogna affaticarsi: tutto è stato predisposto da altri ben prima di noi» (Arrigo Corazza)

 

Evviva! Grazie a Dio, il ciclo natalizio cattolico è finito. Anche questa volta la sbornia di fine anno è passata. A dire il vero, essa, a causa delle ristrettezze imposte dal Covid-19, non è stata solenne, ma ben poca cosa rispetto alle mirabolanti imprese che in proposito si compivano nel passato. Del ciclo natalizio (il più lungo periodo di festività religiose in Italia), a noi ora non interessa esaminare la sua intensità rispetto a prima, ai tempi normali, ma soltanto la sua utilità. In altre parole, vogliamo in primo luogo chiederci quale scopo abbia non solo il ciclo natalizio, ma qualsivoglia festa cattolica (lunga o breve). In secondo luogo, occorre indagare se le festività religiose comandate dagli uomini siano giuste e accettabili biblicamente. A questo secondo proposito, occorre subito precisare che la festività natalizia non è giusta, visto che nel Nuovo Testamento non se ne fa alcuna menzione (lo stesso può dirsi per ogni altra ricorrenza religiosa cattolica).

I cristiani si radunavano ogni primo giorno della settimana per ricordare la vita, la morte, la risurrezione di Gesù di Nazareth (avvenuta, per l’appunto, il primo giorno della settimana), nonché la sua ascensione al cielo e sessione alla destra del Padre, in vista della Sua manifestazione finale (parusìa) nell’ultimo giorno degli ultimi giorni (“tempi”).

Ogni primo giorno della settimana i cristiani erano “chiesa” (ekklesìa, “assemblea”) per glorificare Dio in Cristo Gesù. Essi si raccoglievano insieme per ricordare la loro Pasqua, e cioè il sacrificio di Cristo Gesù (nel memoriale che era e rimane la “Cena del Signore”, sino alla fine di questo mondo). Nell’assenza di feste comandate dal Signore, essi si distaccano totalmente da quel mondo ebraico che era la loro radice. Cristo ha riassunto in sé, nell’offerta del proprio corpo, tutto il sistema sacrificale ebraico. Cristo ha annullato per sempre l’idea di centralizzazione geografica, in un solo punto o luogo, dell’esperienza religiosa che solo a Lui fa capo. Per il cristiano si tratta di un nuovo mondo, in cui vige un modo affatto diverso di intendere la realtà spirituale, che lo rende totalmente difforme da com’era prima del suo incontro con Gesù.

Quanto allo scopo delle feste religiose comandate, bisogna dire che, secondo il Nuovo Testamento (Patto in Cristo Gesù), non esiste più alcuna frammentazione nello spirito di chi crede, tutto dedicato – ogni giorno della sua vita terrena – al servizio del Signore e del prossimo. Alla prova pratica, in generale, nessuna festività rende migliore o peggiore chi crede; ciò vale soprattutto per il cristiano, che non ha bisogno di parcellizzare la sua esistenza, che scorre giornalmente verso l’incontro con il Signore. Quindi, per il cristiano secondo il Nuovo Testamento, santificare, sotto l’aspetto religioso, uno o più giorni rispetto agli altri non ha alcun senso o importanza perché OGNI GIORNO egli festeggia il Salvatore Gesù, ricordandone la vita, la morte, la risurrezione, l’ascensione, la sessione alla destra del Padre e il ritorno all’ultimo giorno degli ultimi giorni. OGNI PRIMO GIORNO della settimana il cristiano secondo il Nuovo Testamento diventa “assemblea” insieme ai suoi fratelli e sorelle in Cristo per il memoriale che è la Cena del Signore (ovviamente, la Chiesa di Cristo è tale non soltanto il primo giorno della settimana, ma ogniqualvolta è adunanza per gli scopi voluti dal Signore stesso e adeguatamente descritti nel Nuovo Testamento).

È interessantissimo studiare il potere cattolico nel suo sviluppo storico. Esso fa capo a tre fonti di autorità: Bibbia, magistero e tradizione. A livello concreto di risultati la tradizione è sicuramente la più semplice e redditizia per due motivi di fondo.

In primo luogo, alla gente comune – per assoluta mancanza di abitudine – risulta faticoso studiare e capire la Bibbia. Difatti, nel nostro Paese pochi sanno che cosa REALMENTE la Bibbia sia, perché la Bibbia sempre assai poco ha contato nel cattolicesimo. Una tradizione umana negativa (non serve leggere la Parola di Dio) ha purtroppo distrutto, nel corso dei secoli, una tradizione biblica positiva (amate e mettete in pratica la Parola di Dio). Per questo il messaggio della Bibbia risulta oscuro ed inefficace alla stragrande maggioranza degli Italiani.

In secondo luogo, è ancora più stancante e complicato entrare nei meandri del magistero (così variabile nel corso della millenaria storia del cattolicesimo). Chi può apprendere e digerire una tale intricata successione di fatti storici e il pesante fardello di imposizioni dottrinali, talora contraddittorie, che ne scaturiscono? Lo stesso catechismo cattolico, seppure ridotto all’osso, è sempre un bel librone, sicuramente più corposo del Nuovo Testamento. Quindi, secondo le autorità cattoliche (almeno fino al Concilio Vaticano II [1962 – 1965], che ha cominciato a parlare di Bibbia in un altro modo), non servirebbe studiare direttamente i testi sacri, ma basterebbe solo apprendere l’insieme dei principi della dottrina cattolica (catechismo) e conformarsi ad esso. Anche un cieco vedrebbe che questa via non porta da nessuna parte, come in effetti è accaduto. La convinzione e l’impegno che nascono da una lettura diretta della Parola di Dio non possono affatto essere quelli determinati dalle tradizioni umane. Lo stato disastroso in cui versa il mondo cattolico italiano ne è la testimonianza più diretta. Possiamo intendere la Divina Commedia dantesca o i Promessi Sposi manzoniani prima di averli letti? Sarà sufficiente un breve riassunto (un bignamino) allo scopo?

Rispetto alla Bibbia, la tradizione va solo seguita, senza troppo scervellarsi, senza troppo chiedere, senza troppo impegnarsi. Essa è una meravigliosa alleata di tutte quelle religioni in cui non si vuole pensare, studiare, acquisire, giudicare e decidere. Nella tradizione non bisogna affaticarsi: tutto è stato predisposto da altri ben prima di noi. E quando il cattolicesimo chiama, si è più o meno pronti. Sì, perché non bisogna dimenticare che il cattolicesimo chiama e chiama SEMPRE a scadenze fisse, mediante i sacramenti e le tradizioni. Non inganni il fatto che in tempi recenti (vista la crescente secolarizzazione delle società) la Chiesa Cattolica si limiti a chiedere poco o pochissimo al credente cattolico. Si ha quasi un tacito accordo, un do ut des, tra le due parti. La Chiesa chiede e i fedeli rispondono alla bell’e meglio, come possono (a condizione, però, che, POI, ciascuno, in entrambe le parti, possa continuare indisturbato a farsi gli affari propri –  esattamente come accadeva prima). Infatti, non è un caso che, alla fin fine, molti cattolici siano quasi atei e anarchici sotto l’aspetto fideistico, cultori perfetti e appassionati della propria religione personale. La tradizione è un manto che copre diabolicamente tutte queste situazioni.

Sull’onorevole Antonio Gramsci (1891 – 1937) è possibile informarsi ovunque. A noi qui non interessa parlare del Gramsci intellettuale comunista ateo, ma del Gramsci scrittore. Le sue Lettere dal carcere, che non parlano di politica per motivi censori, sono celebri per la loro bellezza. In un brevissimo ma mirabile scritto del 1° gennaio 1916, il venticinquenne sardo Antonio Gramsci esprime il proprio disagio sul capodanno. Sostituiamo “socialismo” con “cristianesimo”, “capodanno” con “feste cattoliche” ed il gioco è fatto. Potrebbe un cristiano scrivere più incisivamente? Nell’attesa, a distanza di oltre un secolo, godiamoci questi pensieri. Tanto di cappello ad Antonio Gramsci (almeno in quest’occasione)!

Arrigo Corazza

 

«Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.

E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 o il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore … Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio? Tutto ciò stomaca.

Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati».

Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese, rubrica Sotto la Mole.