26 luglio 2014
Spesso si ha la pessima abitudine, in religione, di non osservare le cose dal punto di vista storico. Ci siamo mai chiesti che cosa sarebbe stato il cristianesimo senza l’opera di un Paolo o di altri cristiani che, come lui, hanno operato per chiarire un punto fondamentale: dalla morte di Cristo in poi, tutti – Giudei e non Giudei – possono essere salvati senza dover passare attraverso la Legge di Mosè? Il cristianesimo sarebbe stato solo un’ulteriore suddivisione dell’ebraismo (quale in effetti veniva considerata dai Giudei: vedi At 24:5,14; 28:22).
È grazie a servitori di Dio siffatti se chi, non essendo ebreo, vuole convertirsi a Cristo, è libero dalla Legge di Mosè: non deve farsi circoncidere, non deve osservarne le prescrizioni rituali o d’altro genere, perché da Gesù in poi «l’uomo è giustificato mediante la fede [in Cristo] senza le opere della legge [di Mosè]» (Rm 3:28). La legge mosaica agì propedeuticamente in vista del Vangelo e fu data da Dio al popolo d’Israele (cfr. Sal 147:20). Essa servì essenzialmente per abituare a comprendere che v’è il Bene e v’è il male, ciò che Dio comanda e ciò che vieta, per «distinguere tra il santo e il profano, tra l’impuro e il puro» e per comprendere l’assoluta santità e giustizia di Dio a fronte della nostra condizione di peccatori (Lv 10:10; cfr. Rm 3:20).
L’educazione e la disciplina di Mosè furono – vista la bassa condizione morale del popolo – necessariamente rigide, rigorose, per cercare di portare coloro ai quali si rivolgeva dallo stato di bambini testardi, sviati e immaturi a quello di uomini fatti, pronti a ricevere il messaggio sublime della Buona Novella, per trovare il contatto più autentico e intimo possibile con il Padre celeste. La Legge fu dunque, per dirla con le parole di Paolo, come un «precettore», un duro pedagogo che indirizzava al Cristo, e sotto di essa gli Israeliti erano «come rinchiusi, in attesa della fede che doveva essere rivelata» (Gal 3:23-24). Essendo preparatoria, la Legge «non ha portato nulla a compimento» (Eb 7:19) e le sue prescrizioni furono imposte «fino al tempo del cambiamento», ossia del «patto molto migliore», quello di Cristo, sommo sacerdote «perfetto in eterno» (Eb 9:10; 7:22.28). Il Vangelo, invece, è in grado di donare la «libertà di entrare nel santuario [la compiuta, totale comunione con Dio], in virtù del sangue di Gesù, che è la via recente e vivente che egli ha inaugurato per noi» (Eb 10:19-20). L’A.T. contiene «solo l’ombra dei beni futuri» (Eb 10:1) e «genera a schiavitù» (Gal 4:24).
Le Sacre Scritture dell’Antico Patto – dando sì la coscienza della trasgressione, ma non la forza e i mezzi per uscirne in modo definitivo (cfr. Eb 9:9) – hanno «rinchiuso ogni cosa sotto il peccato»; perciò, la Gerusalemme dell’A.T. è «schiava con i suoi figli» (tutti coloro che ancora si sottopongono alla Legge di Mosè), mentre la «Gerusalemme di sopra», vale a dire la Gerusalemme celeste, alla quale conduce il Vangelo, è «libera ed è la madre di tutti noi», perché se siamo discepoli di Gesù «non siamo figli della schiava ma della libera» (Gal 4:22ss.; cfr. Eb 12:22; Ap 21:2). Rivolgerci nuovamente alla Legge significherebbe non essere più «saldi nella libertà con la quale Cristo ci ha liberati» per farsi invece ridurre nuovamente «sotto il giogo della schiavitù» (Gal 5:1). Il N.T. è «la legge perfetta», la «legge della libertà» (Gc 1:25, 2:12), scritta «non su tavole di pietra, ma sulle tavole di un cuore di carne», ed è il «nuovo patto, non della lettera, ma dello Spirito, poiché la lettera uccide, ma lo Spirito dà vita» (2Cor 3:3.6): «Io – aveva profetizzato l’Eterno – porrò le mie leggi nella loro mente e le scriverò nei loro cuori, e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo», aggiungendo: «E non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità» (Eb 8:10, 10:16-17; cfr. Ger 31:31-34).
Arrigo Corazza – Valerio Marchi (2005)